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Fasci di particelle come macchine di Formula 1: l’intervista ad un ricercatore della Sapienza

Fasci di particelle come macchine di Formula 1: l’intervista ad un ricercatore della Sapienza

Intervista ad un fisico ricercatore della Sapienza, che spiega l'accelerazione di particelle subatomiche con metafore automobilistiche. Matteo Cesari

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Intervista ad un fisico ricercatore della Sapienza, che spiega l’accelerazione di particelle subatomiche con metafore automobilistiche.

Matteo Cesarini è un giovane ricercatore dell’università La Sapienza di Roma. Ventisettenne, laureato in fisica con pieni voti, ha vinto una borsa di dottorato per un progetto di ricerca in fisica degli acceleratori. Lavora per conto dell’ateneo romano presso i laboratori dell’INFN (Istituto Nazionale di Fisica Nucleare) a Frascati. In questa intervista ha voluto raccontare le sue esperienze sul campo, tra particelle subatomiche e bolidi a quattro ruote.

 

Matteo, esattamente tu chi sei e cosa fai?

Io sono un ricercatore. Sono al secondo anno di dottorato presso i dipartimenti di fisica nucleare della Sapienza e, fisicamente, faccio ricerche nel campo degli acceleratori. In particolare, studio “l’accelerazione al plasma”, una tecnica innovativa per l’osservazione e lo studio di particelle di materia accelerate.

Sembra una cosa interessante, ma che scopo ha la tua ricerca?

Il mio studio è parte di un progetto più ampio finalizzato allo sviluppo di tecnologie che rendano “più piccoli” gli acceleratori stessi. L’accelerazione delle particelle è qualcosa che esiste già da molti anni. Io, come tanti altri miei colleghi nel mondo, ne sto studiando i possibili sviluppi. Il mio compito è osservare le particelle accelerate per analizzarne il comportamento e cercare di capire come ottenere gli stessi effetti senza l’utilizzo di mezzi enormemente ingombranti come, appunto, gli acceleratori di oggi. Ridurre le dimensioni conterrebbe i costi. Consentirebbe lo sfruttamento di tale tecnologia in molti campi, dove teoricamente sarebbe già applicabile, ma praticamente non è possibile farlo senza disporre di grandi strutture apposite.

In quali campi?

Per ora gli usi principali sono al livello industriale in ambito medico-farmaceutico. Non è però escluso che in futuro si possano trovare altri campi tecnici di applicazione.

Quando sei al lavoro in laboratorio, cosa succede materialmente?

Al livello strettamente tecnico lavoro sull’accelerazione al plasma. Per ottenerlo, innanzitutto si introduce del gas all’interno di un piccolo cilindro cavo. Chiaramente il sistema di pompaggio del gas deve avvenire secondo caratteristiche specifiche, per generare e mantenere le giuste condizioni di lavoro. Il gas viene quindi sottoposto al processo di ionizzazione. In pratica lo faccio attraversare da una scarica elettrica. E in sostanza il gioco è fatto. Una volta ottenuto il plasma gli sparo dentro due fasci di particelle, uno più grande e uno più piccolo. L’azione del fascio grande nel plasma crea una sorta di bolla con un campo elettrico. All’interno di questa bolla finisce poi il fascio più piccolo che, proprio grazie all’azione elettromagnetica del campo, viene accelerato. È come in Formula 1. La macchina che insegue (il fascio piccolo) sfrutta la scia (la bolla) generata dalla macchina davanti (il fascio più grande) per andare più veloce. Come l’auto da corsa guadagna velocità dalla sensibile diminuzione di attrito dell’aria, le particelle accelerano notevolmente grazie al campo elettromagnetico. Molti per spiegare questo fenomeno usano l’esempio della scia delle navi e delle onde generate da queste, ma a me piacciono le Ferrari. E comunque trovo più calzante il mio parallelo o, quantomeno, più intuitivo.

Ma tutta questa procedura non la fai da solo, ci sono altre persone che lavorano con te?

Certamente. C’è un intero gruppo di ricerca con cui lavoro, formato da professori e altri ricercatori come me, più tutta la parte dei tecnici di laboratorio. Proprio come gli ingegneri, i tecnici e i meccanici di una scuderia della Formula 1. Ognuno ha un ruolo essenziale difficilmente sopperibile. Vettel il motore non se lo monta da solo. E nemmeno si cambia le gomme o si tiene la telemetria per conto suo. Il mio gruppo si chiama SPARC_LAB ed è guidato dal professor Massimo Ferrario. Collaboriamo al livello europeo al progetto EuPRAXIA.

Veniamo alle tue esperienze personali nel mondo della ricerca scientifica. Hai avuto modo di lavorare anche in altri contesti?

Durante la stesura della tesi magistrale studiavo i rivelatori di particelle. Una cosa un po’ diversa da quello che sto facendo ora, sebbene il nome simile possa trarre in inganno. Non parliamo di argomenti totalmente agli antipodi, ma sono comunque due campi distinti. Proprio grazie a quel lavoro di tesi sono potuto andare anche al CERN di Ginevra. Lì stavano testando un nuovo prototipo di rivelatore creato in Italia, ed era proprio l’oggetto della mia tesi. Una volta laureato ho preferito cambiare ambito per studiare altri aspetti della materia. E sono finito a Frascati. Di recente mi è poi capitata l’occasione di partecipare ad un progetto scuola finanziato dallo stesso CERN che approfondiva proprio il tema che sto studiando in questo momento. Così sono stato due settimane a Sesimbra, in Portogallo, dove, insieme ad altri colleghi, ho potuto approfondire il valore della mia ricerca.

Immagino siano state tutte esperienze importanti per la tua formazione professionale.

Assolutamente sì. A Ginevra è stato meraviglioso trovarsi in un melting pot di persone provenienti da ogni dove, che parlano tutte la stessa lingua, quella della scienza. Ho potuto toccare con mano tutte quelle attività che fino a poco prima avevo solo visto raccontate sui manuali universitari. A Sesimbra invece è stato importante il confronto diretto con gli altri colleghi. In primo luogo perché ho capito effettivamente cosa significhi non essere l’unico a studiare e lavorare su una materia specifica. La concorrenza, se così si può definire, è sia stimolo che motivo di pressione. E questo non deve essere necessariamente inquadrato come una cosa positiva o negativa: l’unica cosa certa è che ti spinge costantemente a dare il massimo. In secondo luogo, il confronto è senza dubbio una possibilità di arricchimento anche in ambito scientifico. Il lavoro in team è fondamentale nel mio ambito e lì in Portogallo, il gruppo di lavoro in cui ero coinvolto, mi ha permesso di ampliare la possibilità di sperimentazione facendo cose che da solo non avrei mai fatto.

Cosa hai notato di diverso nell’approccio al tuo stesso campo di studi da parte degli altri fisici di altri paesi?

Non saprei di preciso se l’approccio sia diverso o meno. Quello che ho notato è che noi italiani abbiamo una preparazione più vasta e completa rispetto ad altri colleghi. Spesso da altre parti si privilegia la focalizzazione su alcuni settori specifici. Perciò altri colleghi, pur competenti ed egualmente titolati, difficilmente potrebbero spaziare in diversi campi applicativi di un medesimo argomento. Secondo me, una preparazione a tutto tondo sulla materia in generale rappresenta una migliore base di partenza per addentrarsi in questo tipo di lavoro. Magari è uno studio troppo dispersivo, ma ha i suoi pregi. Per contro, all’estero possono godere senza dubbio di maggiori risorse e riconoscimenti economici per gli sforzi profusi.

 

Sperando che il suo lavoro sia presto fruttuoso, non resta che fare un in bocca al lupo a Matteo e alla sua scuderia di particelle.

#FacceCaso

Di Tommaso Fefè

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