Nuovo appuntamento con le nostre interviste musicali: oggi è Dropout a passare sotto le grinfie della nostra redazione per il nuovo singolo. Dropou
Nuovo appuntamento con le nostre interviste musicali: oggi è Dropout a passare sotto le grinfie della nostra redazione per il nuovo singolo.
Dropout è un compositore e designer grafico in continuo movimento tra Italia, Inghilterra e Giappone. Chitarrista per elezione, synthesista per evoluzione, dal 1996 ha all’attivo diversi lavori su commissione per multimedia, ambienti (negozi, installazioni architettoniche), installazioni artistiche e danza contemporanea. Oltre che 7 LP di Indie elettronica sperimentale. Collabora con la compagnia inglese Londonacoustics.com nella progettazione e realizzazione di plugin pro-audio, oltre che con altre aziende internazionali del settore musicale come, per esempio, sE Electronics, Sonic Distribution e Aston Microfoni. Il lavoro di Dropout è un caleidoscopio di suoni elettronici che evocano sfumature rarefatte di kraut-rock, strutture progressive ’70, con sporadiche sonorità new wave e decise influenze elettro-folk, per un risultato mai troppo nostalgico, sempre proteso verso la sperimentazione contemporanea, e certamente con un percorso personale in direzione ostinata & contraria alla volatilità e imposizione delle mode.
In occasione dell’uscita del nuovo album del progetto, intitolato “La fine delle cose”, abbiamo fatto una chiacchierata con Dropout per conoscere meglio la sua visione e ovviamente il suo percorso scolastico.
Questo è un sito dedicato agli studenti, quindi non possiamo che iniziare col chiederti qualcosa sul tuo percorso scolastico.
Ah, è stato un percorso piuttosto lungo. Vorrei però iniziare, curiosamente, dalle elementari perché ho avuto la fortuna di essere in una scuola con degli insegnanti che a inizio anni ’80 facevano seria sperimentazione nell’insegnamento e di conseguenza cose davvero interessanti. Credo che questo abbia gettato le basi per un tipo pensiero e visione delle cose molto alternativi per quanto riguarda la nostra generazione, rispetto alle successive. Poi fast-forward: ho frequentato le superiori a indirizzo tecnico “ITI di Bolzano” per, in seguito, passare in modo abbastanza automatico a ingegneria dell’Ambiente e Risorse Energetiche a Trento. Università che però ho dovuto lasciare molto vicino alla fine del percorso perché ho avuto all’improvviso la forte necessità di seguire il mio lato creativo che col tempo stava sempre più pressando per venire a galla. Il problema era che in Italia non ci si può iscrivere a due università statali contemporaneamente, quindi ho dovuto fare la rinuncia agli studi per poter andare all’ISIA di Urbino (Istituto Superiore Industrie Artistiche). Facoltà fondata da Albe Steiner e frequentata alcuni anni prima da un’illustre predecessore: Ivan Graziani, così mi rivelarono al colloquio dell’esame di ammissione. Quindi ufficialmente sono un progettista grafico con una salda preparazione tecnica di sottofondo. La mia tesi finale verteva sullo studio e la creazione di musiche per l’ambito multimediale, perché vorrei ricordare che all’inizio degli anni 2000 non c’era granché come loop preconfezionati e nemmeno quei comodi portali di vendita di musica stock. Quindi ci si doveva arrangiare componendo da sé, per evitare i grossi problemi di copyright sull’utilizzo musicale che ancora non prevedeva soluzioni formali per l’utilizzo specifico su web e multimedia.
Inoltre il grosso problema di fondo era la bassa banda passante di internet (ancora si andava a ISDN o addirittura doppino telefonico standard… il tutto calcolato al minuto di connessione!) per questo era necessario lavorare con loop brevissimi e leggerissimi, quindi la sfida era riuscire ad essere il più possibile creativi e accattivanti nonostante tutte queste limitazioni. Il risultato pratico di questa tesi fu il mio primo disco ufficiale “Where is the sunshine” (2001-2004), che estende in formato canzone proprio queste idee.
Dal 2007 al 2012 sono poi finito a fare l’insegnante di progettazione grafica e di fotografia all’Enrico Fermi di Formia, una bellissima esperienza con dei ragazzi davvero in gamba. È stata personalmente un’occasione per restituire alla scuola un po’ di quello che avevo imparato. Mi manca davvero tanto quel tipo di rapporto con gli studenti.
E che tipo di rapporto hai invece con lo studio della musica? Si può fare musica senza studiarla?
Ho studiato perlopiù sul campo, perché quando ho iniziato a interessarmi seriamente alla musica elettronica, in Italia non c’erano alternative ai conservatori, che però non offrivano niente di contemporaneo e aggiornato, quindi utile alla mia specifica causa. Sarei dovuto andare all’estero ma, come riepilogato nella domanda precedente, avevo altri progetti paralleli. Adesso per fortuna ci sono molte realtà per chi vuole approcciare alla musica elettronica e al mixing/mastering.
Una parte importantissima del mio percorso di “studio” è stata la frequentazione assidua, attenta e silenziosa di un sacco di musicisti e gruppi locali dell’epoca, quindi non era raro trovarmi nelle varie salette di prova e/o a concerti di tutti questi amici, rimanendo immerso in generi diversissimi tra loro come per esempio classica, metal, hard core, hip-hop, jazz e musica pop. Poi più avanti ho avuto a che fare con DJ, compositori e ingegneri del suono sempre più qualificati (con tanti siamo cresciuti insieme, qualcuno è diventato addirittura un big). Un punto di svolta personale però è stato frequentare nel 2003 un corso sostenuto dalla Provincia Autonoma di Bolzano tenuto dal Maestro Tiziano Popoli (che tra l’altro è uscito con un disco nuovo proprio in questi giorni), l’ingegnere del suono Carmelo Giacchino, ed Emanuele Zottino dei Discodex, questi ultimi piuttosto noti in zona Alto Adige e oltre. Mi è servito per mettere in ordine tutte le informazioni frammentarie che avevo ricevuto, un po’ come potrebbe succedere adesso con i milioni di tutorial sul web, dove ad un certo punto della vita ti serve un riferimento fidato e certificato per poter scindere le bufale/fandonie dalle informazioni corrette.
Tornando alla domanda, si può fare musica senza studiarla, certamente, ma per essere davvero consapevoli e fare le cose per bene, soprattutto non banali e standardizzate, è sempre meglio dare un rinforzo con uno studio presso enti o persone certificate. Ovviamente intendo sempre la composizione come qualcosa di diverso dall’assemblare loop prefabbricati, usare app simil videogame musicali o “fare prompt” ad intelligenze artificiali…
Poi consiglio, per la stessa ragione di cui sopra, lo studio anche autodidatta di uno o più strumenti perché è, a mio avviso, un esercizio fondamentale per allenare l’area del cervello dedicata alla percezione della musica e dunque un metodo efficace per far scaturire idee davvero proprie in modo coordinato. Io ho iniziato tutto con una chitarra classica trovata in casa… un classico.
Il tuo progetto è attivo da diversi anni ormai. Come senti che è cambiato il panorama musicale contemporaneo da quando hai iniziato a fare musica a oggi?
Sai una cosa? Non riesco a capire come e quando sia successo che il Dropout diciottenne sia diventato “moltodipiùenne”… dato che mi sento sempre uguale, con lo stesso spirito esplorativo e con lo stesso entusiasmo. In ogni modo, ora che mi hai rammentato (sigh) che non sono più di primo pelo, posso anche affermare con minore vergogna che il panorama musicale è cambiato totalmente, anche in modo drammatico potrei osare. [da qui in poi immaginatemi con la voce di Nonno Abe Simpson]
Innanzitutto i nostri riferimenti erano il rock-pop suonato (cose come Nirvana, Pink Floyd, Metallica, Guns, il rap old school, i Litfiba, i Timoria, gli Afterhours e i grandi cantautori impegnati italiani, ecc.) di conseguenza poi c’era molto rispetto verso la qualità della composizione e dell’esecuzione. Cosa che spingeva inevitabilmente a una lunga gavetta prima di avere anche il coraggio di far ascoltare le proprie demo in giro. Ed era comunque molto difficile registrare in modo presentabile perché ancora si andava perlopiù a nastro, il digitale già esisteva ma era una tecnologia davvero pionieristica e costosa. Insomma, c’era una gerarchia e c’erano ben precisi percorsi da affrontare prima di arrivare (se ci riuscivi) là in cima. Quindi ci giungevi preparato e ben “skillato”.
Adesso tutto è estremamente più facile, dalla registrazione al raggiungimento di un risultato sonoro professionale, anche senza dover preoccuparsi più di tanto della tecnica perché ci sono i “tutori” compositivi e gli “airbag” tecnologici che ti salvano anche quando sbagli, anzi, è diventata pure una tecnica quella di gestire la stonatura ad arte. In ogni modo, per farla breve, tutta questa tecnologia ha facilitato talmente l’approccio che chiunque adesso può vantare lo status di musicista, il risultato, unito alla presenza della Rete, è stata la saturazione dell’offerta e un aumento del “rumore di fondo” a dimensioni incommensurabili. Di qui il tracollo del budget e la fine di un mercato come lo conoscevamo dagli anni dell’LP in poi.
Ovviamente oggi si sono aperti altri tipi di mercato e figure professionali, anche interessanti e redditizi, però forse quel periodo che va dagli anni ’60 fino all’inizio 2000 in cui si faceva musica preferibilmente per necessità di comunicazione e la si ascoltava per legame sociale, forse è finito. Pare ci siano altri mezzi per i giovani di oggi per esprimersi, unirsi e immedesimarsi.
La tua musica è spesso improvvisata. Quali sono le sfide più grandi di questo approccio alla composizione e quali sono invece gli aspetti più piacevoli?
In realtà tutti i musicisti improvvisano prima di “mettere in bella”, fa per forza parte del processo creativo di chi vuole comporre e non semplicemente riprodurre. La particolarità che mi riguarda è che in questo disco “Sulla fine delle cose”, per cercare di preservare il più possibile lo spirito del momento, non ho proceduto a risuonare parecchi pezzi, dopo aver improvvisato la prima e unica registrazione di prova. Poi chiaramente ho aggiunto delle sovraincisioni dove necessario. Se avessi avuto un gruppo probabilmente avremmo improvvisato tutto quanto in un take unico.
La sfida quindi è quella di riuscire a trasferire in tempo reale l’idea che sta balenando per la testa in azione coordinata delle mani sullo strumento, cercando di incidere una performance il più possibile corretta. Una sorta di live però eseguito durante l’atto stesso della creazione. Cosa molto jazz invero, anche se personalmente non ricorro a standard.
L’aspetto più piacevole credo sia quella sensazione di raccoglimento interiore/distacco esteriore che potrei descrivere come molto simile a uno stato di meditazione trascendentale.
Chi suona uno strumento so che mi potrà capire.
Il tuo nuovo album affronta il tema della fine delle cose, da cui il titolo. Che consiglio daresti ai giovani che magari si ritrovano ad affrontare questo aspetto della vita per la prima volta?
Che nella vita niente è per sempre*, soprattutto e per fortuna il dolore.
(* a parte i sogni che certe volte sanno accompagnarci per un’esistenza intera, che è un “per sempre” abbastanza soddisfacente per noi esseri mortali)
Quindi, dopo quasi ad aver chiamato in causa il povero Kant, visto che si parla agli studenti, non importa di che disciplina, consiglierei di approfondire la Filosofia anche fosse solo a livello personale.
Poi ovviamente prendete tutto questo come un mio umile parere personale, dettato dalla mia esperienza specifica. Faccio quello che faccio per pura passione e necessità interiore, quindi pontificare non è decisamente il mio ruolo ideale.
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