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Quando è l’insegnante a protestare

Quando è l’insegnante a protestare

Con un lettera, rivolta al Presidente del Consiglio e Ministri, una docente universitaria chiede che venga riconosciuto il suo lavoro. Di Lorenzo Sant

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Con un lettera, rivolta al Presidente del Consiglio e Ministri, una docente universitaria chiede che venga riconosciuto il suo lavoro.

Di Lorenzo Santucci

Essere insegnanti, un po’ come essere dei medici, è una specie di vocazione. Non la si fa tanto per fare o a tempo perso, è una professione che richiede sacrificio e dedizione e che, nella maggior parte dei casi, non è che ti faccia diventare chissà quanto ricco. Certo, è un lavoro che, se fatto nel giusto modo, gratifica e non poco: vedere i tuoi alunni crescere e diventare dei cittadini attivi è anche merito tuo, di chi ogni giorno lo seguiva e gli insegnava oltre che nozioni culturali anche il modo per stare al mondo. Di solito, quando c’è da scendere in piazza, gli studenti sono sempre quelli che si mettono in prima fila, pronti a protestare ed alzare la voce verso qualcuno o qualcosa. Ma da quando è entrata in vigore la riforma scolastica voluta dal governo Renzi, la così chiamata “Buona Scuola”, anche professori, universitari e non, hanno deciso di protestare a modo loro.

A far notizia in questi giorni è lo sfogo di una docente dell’Università degli studi di Napoli, appartenente al Dipartimento di Psicologia. Con una lettera indirizzata al Presidente Renzi e ai ministri Giannini, Madia e Padoan, chiede di rivedere la decisione che nega, ai soli docenti universitari, il riconoscimento giuridico per il quinquennio 2011-2015.

Un’ingiustizia secondo la professoressa, che per protesta ha deciso, insieme ad altri suoi colleghi (non troppi a dire il vero) di non effettuare il VQR previsto dalla riforma Gelmini, ovvero la tanto discussa valutazione dei professori secondo determinati criteri che permetterebbero di premiare il docente con maggior merito. “Perché valutare il mio lavoro, come è giusto che sia”, si chiede la professoressa, “quando i sacrifici di cinque fatti da me ed altre persone non vengono riconosciuti?”. E questo, come sostengono altri, non è una decisone controproducente per l’Ateneo, in quanto una parte risulterà “non attiva”. Ma per chi si sente di svolgere il suo lavoro onestamente, non può essere che essere attivo. Dalla lettera emerge tutta la passione della donna nei riguardi di una professione che lei ama, una passione che va oltre ai soldi. Non è un capriccio economico, bensì una protesta morale ed etica, oltre che ovviamente giuridica. La docente ricorda di come, prima di diventare quel che sono, i ministri e chi opta per tali decisioni è passato prima per un banco di scuola e poi per quello universitario. Non è un atto di riconoscenza o un favore. Sanno che già avere un lavoro in questo periodo è un lusso che, purtroppo, non tutti si possono permettere.

Ma si chiedono il perché questo blocco di riconoscimento giuridico ha riguardato esclusivamente la loro categoria. Il loro modo di protestare, inoltre, non è alquanto dannoso per gli studenti. Come si legge all’interno della lettera, chiudere i cancelli delle università o scioperare danneggerebbe gli studenti che ogni mattina si alzano per andare a lezione.
Una protesta democratica e civile. Nessuna pretesa di aumenti o promozioni. Una richiesta che dovrebbe essere un qualcosa di assodato: riconoscere il lavoro svolto.

Di Lorenzo Santucci

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