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D’altra parte: giovani italiani islamici

D’altra parte: giovani italiani islamici

Qualcuno una volta ha detto: “Non tutti i musulmani sono terroristi, ma tutti i terroristi sono musulmani”. Non sapeva forse che la sottile insinuazio

Antonio Megalizzi era un giornalista, un ragazzo. Uno di noi
Pray for Nice
Strage Parigi, tra le vittime anche la studentessa italiana Valeria Solesin

Qualcuno una volta ha detto: “Non tutti i musulmani sono terroristi, ma tutti i terroristi sono musulmani”.
Non sapeva forse che la sottile insinuazione contenuta in questa frase avrebbe contribuito a gettare, un giorno, i giovani della “seconda generazione” in una difficilissima condizione.

Di Irene Tinero

Quando ho saputo degli attentati di Parigi dello scorso novembre ero di ritorno da una serata fuori con amici: fresca dell’allegria che ti rimane addosso, davanti a quelle terribili immagini, ho pensato ai miei 23 anni, a quante volte sono andata a cena fuori o ad un concerto.
Da quel momento in poi, mi è capitato spesso di ripensarci e di chiedermi come vive tutto questo un mio coetaneo mussulmano, nato e cresciuto qui come me.

A seguito del terribile attentato del 1 luglio a Dhaka, Renata Pepicelli, docente universitaria, si è posta le mie stesse domande ed ha curato un’inchiesta tra i ragazzi bengalesi della periferia romana: il primo ad essere intervistato è stato Rifat, in Italia dall’età di 10 anni, studente di ingegneria, mussulmano praticante.

“Non è stata la povertà a spingerli a uccidere. In Bangladesh, come qui in Europa, il problema dei giovani è il nichilismo”– risponde secco Rifat.

La sensazione che la vita venga svalutata giorno dopo giorno, anche a seguito di eventi simili, penso sia purtroppo un sentimento comune a tutti: se rischio di morire durante un concerto o entrando in un bar diventa ancora più difficile avere 20 anni e “tutta la vita davanti”.
Rifat però, come tutti, vince questo stato di cose ogni giorno e non crede affatto che l’Islam giustifichi la violenza, la considera piuttosto una religione di pace.

Questo “male di vivere”, per dirla con Montale, che può sentire un ragazzo di oggi, non è causato solo dai continui attentati, ma anche da una più generale precarietà che circonda le nostre vite: “studio e male che vada scappo all’estero”, sembra l’unico antidoto a nostra disposizione.
Quante volte l’avete pensato? Se sei una giovane ragazza mussulmana quanto è più difficile realizzare un sogno così?

“Prima di sposarmi voglio diventare una persona, voglio fare dei soldi”, Maimuna, 17 anni. La ragazza sperava di riuscire in questo intento andando in Inghilterra, ma dopo la Brexit la situazione si è complicata notevolmente.
Maimuna voleva forse raggiungere la sua migliore amica, Razia, 17 anni, italiana di origine bengalese, che vive in Gran Bretagna da oltre un anno: “L’Italia mi manca, è il mio Paese, vorrei tornarci”.

Quello che è emerso dalle interviste è che la crisi economica e questo stato di allarme continuo sono gli aspetti che più gravano sulla vita di questi giovani d’oggi. Però nel caso dei “figli della seconda generazione” si deve considerare anche la percezione di vivere in bilico tra il paese d’origine e quella che sentono come la loro casa, la tendenza a ghettizzarsi, a “rimanere tra di loro”, dei genitori e la loro voglia di integrazione e modernità.
Ho come la sensazione che per loro sia tutto più amplificato, aggravato dalla diffidenza con cui oggi il mondo Occidentale li guarda: gli viene chiesto continuamente di “dissociarsi dal terrorismo”.

Questi ragazzi musulmani rispondono di sì, perché questa è la loro volontà, ma vorrebbero che certe domande non gli venissero fatte, almeno non a casa loro.

Di Irene Tinero

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