La legge Gelmini potrebbe essere messa in discussione dalla Corte di Giustizia dell'Unione europea. Il ricorso è stato di un ricercatore di Roma Tre.
La legge Gelmini potrebbe essere messa in discussione dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea. Il ricorso è stato di un ricercatore di Roma Tre.
Che l’approvazione della legge Gelmini sulla riforma delle università avesse a suo tempo lasciato più di qualche dubbio, per usare un eufemismo, è cosa nota. La famigerata legge 240/2010 è stata osteggiata in ogni modo da moltissimi studenti e ricercatori universitari e non solo. Ma a nulla valsero le proteste.
Oggi però le possibilità di una possibile futura modifica sembrano poter trovare nuovi spiragli. Tre giudici del Tar del Lazio hanno rinviato alla Corte di Giustizia dell’Unione europea la decisione su un ricorso presentato dall’avvocato Federico Dinelli. Il legale ritiene che la legge in questione abbia fin qui costretto i post-laureati ad una situazione de facto di costante precarietà. Senza possibilità di sbocchi. E ciò sarebbe manifestamente contrario ai principi del diritto comunitario (art. 267), da cui la decisione di rinviare alla Corte Europea il pronunciamento.
Lo stesso Dinelli, specializzato di diritto amministrativo, proviene dal mondo dei ricercatori universitari. Ha frequentato l’università di Roma Tre e lì ha intrapreso il suo percorso post-laurea, constatando sulla sua pelle la situazione oggetto del suo ricorso.
I problemi creati dalla legge
Uno dei problemi principali generati dalla legge Gelmini è la soppressione della figura del ricercatore a tempo indeterminato. La 240 ha imposto la strutturazione di soli due possibili percorsi per la ricerca post-laurea. Per accedere al cosiddetto “tipo A” è necessario passara da una procedura concorsuale. Con i vincitori così selezionati instaurano un rapporto triennale con l’ateneo, al termine del quale non ci sono possibilità di entrare in un percorso da docente. L’alternativa è il percorso detto “tipo B”, che prevede la selezione per semplice domanda e colloquio, per ottenere un contratto sempre di tre anni. Ma in questo caso l’ateneo può sottoporre il ricercatore a valutazione per un possibile avanzamento di carriera. Si passerebbe quindi a Professore Associato, sempre che si sia passata la prova obbligatoria per “l’abilitazione scientifica nazionale per professore di seconda fascia “.
Un percorso costellato di ostacoli e intoppi burocratici che rendono machiavellica l’intera procedura. Pur esistendo in teoria la possibilità di essere miracolosamente assunti, essa è di fatto remota. Nel 2018 questo sistema ha prodotto un risultato da record. Il numero dei precari è divenuto ufficialmente superiore agli stabilizzati. Nella maggior parte dei casi si resta ricercatori a vita, ma a volte, e qui la questione diventa drammatica, ci si ritrova per strada dopo dieci anni di attività di ricerca. E più o meno all’età di 35 anni bisogna reinventarsi una carriera da 0.
Il ricorso
In questa ingarbugliata situazione si è trovato, da ricercatore, Federico Dinelli. Una laurea presa con lode, un dottorato di ricerca concluso egregiamente, una qualifica da Cassazionista e l’abilitazione per diventare professore conseguita, non sono bastati per ottenere la stabilizzazione professionale. Pur avendo una attività professionale avviata in uno studio legale, ha così deciso di ricorrere alla tribunale per ottenere l’assunzione all’università di Roma Tre, che lui ritiene gli spetti.
Il Tar del Lazio, avendo accertato “l’incompatibilità della legge Gelmini, nella parte in cui rende strutturale la figura del ricercatore precario – si legge nella motivazione del rinvio – con i principi del diritto europeo in materia di contrasto all’abuso del rapporto di lavoro a tempo determinato” ha girato alla corte in Lussemburgo l’intera documentazione. Ora, in mano ai giudici europei c’è il destino di migliaia di precari ed ex precari dell’Università italiana.
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