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Technion sì, Technion no? Alla fine, nulla di fatto

Technion sì, Technion no? Alla fine, nulla di fatto

Il movimento Bds pro-Palestina promuove una petizione per interrompere le collaborazioni universitarie tra Italia e Israele e salta, di fatto, l'accor

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Il movimento Bds pro-Palestina promuove una petizione per interrompere le collaborazioni universitarie tra Italia e Israele e salta, di fatto, l’accordo.

Di Giulia Pezzullo

L’Israel Institute of Technology di Haifa (in breve, Technion) è una delle università più prestigiose al mondo: vanta ben quattro premi Nobel, l’invenzione della chiavetta Usb, lo sviluppo di una medicina per la cura del Parkinson e una tecnologia d’avanguardia per combattere il cancro al cervello. Di questo, ne avevamo parlato proprio ieri. Sempre ieri, avevamo messo in luce il fatto che si sarebbe potuta nascere un’importante occasione di dibattito all’interno dell’Università di Torino, ma tutto ciò non avverrà. Andiamo con ordine e proviamo a riassumere.

Non stupisce che molti atenei italiani, dal 2014 ad oggi, abbiano stretto rapporti collaborativi e stanziato scambi culturali con il polo d’eccellenza d’Israele. Stupisce, invece, come 168 noti accademici e numerosi studenti universitari italiani abbiano aderito alla campagna palestinese per il boicottaggio accademico e culturale d’Israele (Pacbi), ovvero il Bds (Boicottaggio, disinvestimento, sanzioni), con lo scopo di spezzare qualsiasi tipo di accordo tra Technion e Italia. Durante lo scorso anno, infatti, è stata redatta una petizione, firmata e controfirmata da tutti i militanti italiani del movimento di boicottaggio, nella quale si accusa l’ateneo israeliano di sostenere l’apartheid nei confronti di palestinesi e arabi. In modo particolare, alcuni degli accademici firmatari vedono nella collaborazione tra il Technion e la Elbit Sysem, una parte del complesso industriale-militare israeliano produttrice di armi e colpevole, tra le altre cose, la matrice di alcune stragi di civili in Libano (2006) e nella striscia di Gaza (2008-2009 e 2014). L’acredine è così forte che il comitato studentesco di alcuni atenei italiani si è mobilitato per organizzare conferenze e dibattiti per portare avanti la battaglia e dimostrare la validità delle accuse mosse contro il Technion. L’Università di Torino, per l’appunto, aveva chiesto all’ateneo tutti i permessi necessari per un incontro presso il Campus Einaudi che avrebbe dovuto avere luogo il giorno 3 marzo 2016 e durante il quale sarebbero dovuti intervenire un attivista favorevole al boicottaggio e un docente firmatario della petizione. L’uso del condizionale non è una scelta stilistica, bensì la conseguenza della revoca delle autorizzazioni da parte del rettore dell’università che spiega: “Sono venute meno le condizioni per le quali avevamo dato quegli spazi”; a tal proposito il direttore della Scuola di scienze giuridiche, politiche, economiche aggiunge: “Gli studenti ci avevano parlato di un dibattito plurale, a più voci, così non è”.

Ciò che traspare, in effetti, sfiora la definizione di gruppo di fanatici, quasi una setta, in cui l’unica campana che suona è quella favorevole al boicottaggio delle relazioni culturali Italia-Israele; non si discute sulla libertà di espressione e sul diritto di aggregazione per promuovere un idea, ma l’università nasce come luogo di incontro e di scambio di pensieri di varia natura e, come tale, dovrebbe essere sfruttata per creare momenti di critica costruttiva verso entrambe le facce della medaglia. Il rettore dell’istituto di eccellenza israeliano, Peretz Lavie, ha mostrato giustamente il suo disappunto per questa faccenda, sottolineando che al Technion insegnano e studiano arabi (di cui il 51% donne), palestinesi e italiani; ha inoltre aggiunto che il premier Renzi, in visita all’università, ha proclamato a gran voce: “Chi boicotta Israele, boicotta se stesso”.
Questo scambio di battute inizia a scavare la linea di attacco di quelle voci del mondo universitario che rischiano, giorno dopo giorno, di essere definite antisemite; la libertà di manifestare il proprio dissenso su un qualsiasi argomento non può diventare motivo di guerriglia (apparentemente) ingiustificata. Stupisce soprattutto la poca cautela nelle accuse dirette, la difesa a spada tratta delle istituzioni italiane che molto probabilmente così trasparenti non sono e la cecità nel non voler concedere minimamente il beneficio del dubbio. È certamente uno di quei casi in cui una mano sulla coscienza non guasterebbe.

Di Giulia Pezzullo

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